Il naviglio della Martesana è un rigagnolo grigio attorniato da palazzi e sovrastato da tralicci del treno. Un rigagnolo puzzolente e asfissiante, paradiso perduto delle zanzare. Annuso l’aria salmastra e, per un istante, assaporo il gusto della bile tra lingua e palato. Con un singhiozzo rigetto nello stomaco quel sapore rancido. Un ronzio dodecafonico mi avvolge quando attraverso il ponticello sul “fiume”.
Durata dell’attraversamento venti secondi, punture disseminate sul corpo cinque, zanzare uccise tre. La voce di Sara qualche minuto prima “Raggiungimi sul tetto”.
Davanti a me quattro torrioni non abbastanza alti da essere grattacieli e non abbastanza bassi da essere esteticamente accettabili. Piastrellati verde acido, discutibile eredità dei decenni lontani di boom economico e inurbamento selvaggio. Colore pantone. Come carciofi di sessanta metri conficcati nel terreno, spuntano dal grigio cemento, due passi dietro viale Monza.
Camminata fino al portone dello stabile. Minuti quattro e cinquantaquattro. Punture otto. Zanzare uccise quattro. Via Asiago numero 15. Eccomi.
Una colonna di campanelli mezzo metro per uno e mezzo mi ricorda di non sapere a che numero suonare. Processione di cognomi anonimi. È sempre stata lei a portarmi in casa; tenendomi per mano mi trascinava verso l’ascensore e, ancora prima di schiacciare il numerino, gettava le braccia attorno al mio collo. Si aggrappava stretta e iniziava a baciarmi dietro l’orecchio. Non sono mai entrato nel suo appartamento con tutti i vestiti addosso. Come si arriva sul tetto? Guardo a destra, guardo a sinistra, non arriva nessuno. Scavalco il cancello. Il giardino del palazzo è composto da quattro faggi, cinquanta posteggi, un sacco di box. Trovo la scala antincendio esterna e mi preparo alla lenta e lunga ascensione.
Salire le scale da terra al tetto. Sette minuti + otto minuti intervallati da una pausa di trenta secondi. sei punture. Cinque vittime. Il mio respiro affannoso e ansimante da vecchio asmatico mi ricorda che tra i buoni propositi mai soddisfatti dell’anno nuovo avevo inserito anche fare del moto e smettere di fumare.
Il tetto. una distesa piana ricoperta di antenne di ogni forma e dimensione. Luccicano al buio della notte e urlano percosse dal vento. Metallici alberi rinsecchiti disegnati da Ferretti. Sul cornicione al di là delle antenne intravedo una figura di giovane donna a gambe incrociate. Sara. Sguardo fisso all’orizzonte e alle luci di stelle e Milano città. Guarda il nulla e mi dà le spalle; mi avvicino. Ancora spalle; mi avvicino di più. Continuo ad avvicinarmi fino a quando il mio respiro le accarezza la nuca. Lentamente volta il viso verso le mie labbra, un lieve sorriso s’intravede nei suoi occhi. Ma prima di poter dire anche solo una parola, lo sguardo ritorna al nero illuminato della notte.
“Lo sapevi che fino all’ottocento le vie di Milano non avevano nome?” dice, mentre le palpebre si inarcano cercando di afferrare un punto lontano.
“I postini ne saranno stati contenti…”
“E la prima numerazione fu data in base all’importanza dell’edificio. Un bel caos. Il numero 5 poteva essere accanto al 407..”
“Dopotutto ho sempre pensato che i numeri non abbiano reale valore in sé. Il numero uno era il castello; il due, il Duomo?”
“Quasi…castello numero uno, arcivescovado numero due. Non credo, sai, che il Duomo avesse bisogno di un numero…”
“Pensa che lotte tra nobili e borghesi per accaparrarsene uno più prestigioso rispetto al vicino”
Qualche risata sommessa e il click dell’accendino. Anelli di fumo si liberano nell’aria notturna. Luci di camere, tetti, lampioni di circonvallazione, la sagoma imponente, ma elegante del Pirellone. Quassù nemmeno le zanzare interrompono la contemplazione del biscione metropolitano. Dieci minuti. Zero punture. Un po’mi manca lo sterminio d’insetti. Il grattacielo città di Milano, il caos di Loreto, i lavori per l’expo, la madonnina dorata. L’ombra della città sembra muoversi in una lieve foschia allumata giallognolo e arancio.
Lentamente Sara si alza in piedi, frugando tra gli oggetti racchiusi nella sua borsa neradipinta. Le dita affusolate afferrano ed estraggono un grosso panno rosso stinto – un tessuto rosato, in pratica – salsa di vitello tonnato. È una vecchia bandiera falce e martello malmessa e sfibrata, di quelle che ora non si vedono più, neppure nei circoli operai. Nessun acronimo di partito, soltanto il simbolo comunista ad occupare quasi tutto il panno. La bandiera è rosa, la falce azzurrognola.
“E quella da dove l’hai riesumata?” le chiedo. Espressione tra il serio e il faceto.
“Ricordi di inutili lotte. É quasi un cimelio di famiglia. Era di mio nonno, poi è stata tramandata a mio padre, dopo ancora a me”. I suoi occhi scuri, inquieti, balzano tra il panno e il mio sguardo. “Ne ha passate tante” le ombre del pallido viso mi raccontano le immagini del suo pensiero, vaga tra occupazioni, pestaggi, riunioni, cannoni, congressi, manifestazioni, paure, speranze, morti e sparatorie. Ripensa a sé e a suo padre. Ripensa ai racconti di nonno Nini, quando tra montagne e colline impugnava fucili e versava sangue nero. Si chiede a cosa è servito. “Odio questo paese” sussurra mentre irrigidisce il braccio sinistro con quel che resta della bandiera sfilacciata in mano.
“Perché non te ne vai? Inizia una nuova vita a Londra, a Valencia, in Australia”
“E cosa cambierebbe? Non sono più anni di speranze. Calma piatta, nulla cambia, in nessun luogo.”
Afferra forte la bandiera, la stringe. Inizia a stracciarla con foga. La strappa in due liste, poi in quattro, dopo ancora in sei. La osservo attentamente, poi vedo in lontananza torre Velasca. Sara stralcia pezzetti di stoffa e li ammucchia per terra con movimenti nervosi ed improvvisi. Poi li raccoglie e se li tiene tra i palmi delle mani. Un attimo di silenzio che dura un anno.
Una scena del genere al cinema avrebbe senza dubbio un forte impatto melodrammatico. Il pianoforte di Morricone e qualche protagonista hollywoodiano. Christian Bale, Micheal Pitt. Non pretenderei mica Johnny Depp. Nei film le zanzare non pungono mai nessuno.
Sara, dopo qualche istante di immobilismo assoluto, sale sul cornicione che incapsula il tetto, separa le mani l’una dall’altra e libera in volo i coriandoli rossi di tessuto comunista. Rosei fiocchi di neve che cadono tra i tetti di Viale Monza, di notte a Milano, l’estate. Mi avvicino da dietro e la abbraccio, la stringo forte al mio petto accarezzandole il ventre. E vedo anacronistici stracci danzare nel cielo. Una macabra danza di morte rosata. Ripenso a Pratolini e Calvino, le alpi liguri e lombarde, antifascisti dell’ultima ora, Vittorini, il corpo di Gramsci sul pavimento di una cella, Berlinguer e l’espulsione di Trockij, il kgb, Serov, la Jugoslavia e la Cina, Fidel. Togliatti, le foibe e la Siberia. Ripenso a tutto questo in un lunghissimo momento.
Associazione d’idee che libera mondi. Ma sento anche le forme del suo culo sfiorarmi il sesso. E lo sento diventare duro. Apprezzo il mio istinto, mi rammenta di essere vivo.
o0piate
follelfo
febbraio 20, 2009
VENTI GENNAIO DUEMILANOVE. CENTENARIO DEL MANIFESTO DEL FUTURISMO.
FoLLeLFo ripropone: “Uccidiamo il chiaro di luna” di F.T.Marinetti (è un po’lungo rispetto a quello che di solito viene pubblicato in un commento, ma ne vale sicuramente la pena)
1.
– Olà! grandi poeti incendiari, fratelli miei futuristi!…Olà! Paolo Buzzi, Palazzeschi, Cavacchioli, Govoni, Altomare, Folgore, Boccioni, Carrà, Russolo, Balla, Severini, Pratella, D’Alba, Mazza! Usciamo da Paralisi, devastiamo Podagra e stendiamo il gran Binario militare sui fianchi del Gorisankar, vetta del mondo!
Uscivamo tutti dalla città, con un passo agile preciso, che sembrava volesse danzare cercando ovunque ostacoli da superare. Intorno a noi, e nei nostri cuori, immensa ebrietà del vecchio sole europeo, che barcollava tra nuvole color di vino…Quel sole ci sbatté sulla faccia la sua gran torcia di porpora incandescente, poi crepò, vomitandosi tutto all’infinito.
Turbini di polvere aggressiva; accecante fusione di zolfo, di potassa e di silicati per le vetrate dell’Ideale!…Fusione d’un nuovo globo solare che presto vedremo risplendere.
– Vigliacchi! – gridai, voltandomi verso gli abitanti di Paralisi, ammucchiati sotto di noi, massa enorme di obici irritati, già pronti per i nostri futuri cannoni.
“Vigliacchi! Vigliacchi!…Perché queste vostre strida di gatti scorticati vivi?…Temete forse che appicchiamo il fuoco alle vostre catapecchie?…Non ancora!…Dovremo pur scaldarci nell’inverno prossimo!…Per ora, ci accontentiamo di far saltare in aria tutte le tradizioni, come ponti fradici!…La guerra?…Ebbene, sì: essa è la nostra unica speranza, la nostra ragione di vivere, la nostra sola volontà!…Sì, la guerra! Contro di voi, che morite troppo lentamente, e contro tutti i morti che ingombrano le nostre strade!…
“Sì, i nostri nervi esigono la guerra e disprezzano la donna, poiché noi temiamo che braccia supplici s’intreccino alle nostre ginocchia, la mattina della partenza!…Che mai pretendono le donne, i sedentarî, gl’invalidi, gli ammalati, e tutti i consiglieri prudenti? Alla loro vita vacillante, rotta da lugubri agonie, da sonni tremebondi e da incubi grevi, noi preferiamo la morte violenta e la glorifichiamo come la sola che sia degna dell’uomo, animale da preda.
“Vogliamo che i nostri figliuoli seguano allegramente il loro capriccio, avversino brutalmente i vecchi e sbeffeggino tutto ciò che è consacrato dal tempo!
“Questo v’indigna? Mi fischiate?…Alzate la voce!…Non ho udita l’ingiuria! Più forte! Che cosa? Ambiziosi?…Certamente! Siamo degli ambiziosi, noi, perché non vogliamo strofinarci ai vostri fetidi velli, o gregge puzzolente, color di fango, canalizzato nelle strade antiche della Terra… Ma “ambiziosi” non è la parola esatta! Noi siamo piuttosto dei giovani artiglieri in baldoria!…E voi dovete, anche a vostro dispetto, abituarvi al frastuono dei nostri cannoni! Che cosa dite?…Siamo pazzi?…Evviva! Ecco finalmente la parola che aspettavo!…Ah! Ah! Bellissima trovata!…Prendete con cautela questa parola d’oro massiccio, e tornatevene presto in processione, per celarla nella più gelosa delle vostre cantine! Con quella parola fra le dita e sulle labbra, potrete vivere ancora venti secoli… Per conto mio, vi annuncio che il mondo è fradicio di saggezza!…
“E’ perciò che noi oggi insegnamo l’eroismo metodico e quotidiano, il gusto della disperazione, per la quale il cuore dà tutto il suo rendimento, l’abitudine all’entusiasmo, l’abbandono alla vertigine…
“Noi insegnamo il tuffo nella morte tenebrosa sotto gli occhi bianchi e fissi dell’Ideale…E noi stessi daremo l’esempio, abbandonandoci alla furibonda Sarta delle battaglie, che, dopo averci cucita addosso una bella divisa scarlatta, sgargiante al sole, ungerà di fiamma i nostri capelli spazzolati dai proiettili… Così appunto la calura di una sera estiva spalma i campi d’uno scivolante fulgòre di lucciole.
“Bisogna che gli uomini elettrizzino ogni giorno i loro nervi ad un orgoglio temerario!…Bisogna che gli uomini giuochino d’un tratto la loro vita, senza spiare i biscazzieri bari e senza controllare l’equilibrio delle roulettes, stando chini sui vasti tappeti verdi della guerra, covati dalla fortunosa lampada del sole. Bisogna, – capite? – bisogna che l’anima lanci il corpo in fiamme, come un brulotto, contro il nemico, l’eterno nemico che si dovrebbe inventare se non esistesse!…
“Guardate laggiù, quelle spiche di grano, allineate in battaglia, a milioni…Quelle spiche, agili soldati dalle baionette aguzze, glorificano la forza del pane, che si trasforma in sangue, per sprizzar dritto, fino allo Zenit. Il sangue sappiatelo, non ha valore né splendore, se non liberato, col ferro o col fuoco, dalla prigione delle arterie! E noi insegneremo a tutti i soldati armati della terra come il sangue debba essere versato… Ma, prima, converrà ripulire la grande Caserma dove voi pullulate, insetti che siete! Ci vorrà poco… Frattanto, cimici, potete ancora tornare, per questa sera, agl’immondi giacigli tradizionali, su cui noi non vogliamo più dormire!”
Mentre volgevo loro le spalle, io sentii, dal dolore della mia schiena, che troppo a lungo avevo trascinato, nella rete immensa e nera della mia parola, quel popolo moribondo, coi suoi ridicoli guizzi di pesce ammucchiato sotto l’ultima ondata di luce che la sera spingeva alle scogliere della mia fronte.
2.
La città di Paralisi, col suo gridìo di pollaio, coi suoi orgogli impotenti di colonne troncate, con le sue cupole tronfie che partoriscono statuette meschine, col capriccio dei suoi fumi di sigaretta sopra bastioni puerili offerti ai buffetti… scomparve alle nostre spalle, danzando al ritmo dei nostri passi veloci.
Davanti a me, ancora distante alcuni chilometri, si delineò ad un tratto il Manicomio, alto sulla groppa di una collina elegante, che sembrava trotterellare come un puledro.
– Fratelli, – diss’io – riposiamoci per l’ultima volta, prima di muovere alla costruzione del gran Binario futurista!
Ci coricammo, tutti fasciati dall’immensa follia della Via Lattea, all’ombra del Palazzo dei vivi, e subito tacque il fracasso dei grandi martelli quadrati dello spazio e del tempo… Ma Paolo Buzzi, non poteva dormire, poiché il suo corpo spossato sussultava ad ogni istante alle punture delle stelle velenose che ci assalivano da ogni parte.
– Fratello! – mormorò – scaccia lontano da me codeste api che ronzano sulla rosa porporina della mia volontà!
Poi si riaddormentò nell’ombra visionaria del Palazzo ricolmo di fantasia, da cui saliva la melopea cullante ed ampia della eterna gioia.
Enrico Cavacchioli sonnecchiava e sognava ad alta voce: – Io sento ringiovanire il mio corpo ventenne!…Io ritorno, d’un passo sempre più infantile, verso la mia culla… Presto, rientrerò nel ventre di mia madre!…Tutto, dunque, mi è lecito!…Voglio preziosi gingilli da rompere… Città da schiacciare, formicai umani da sconvolgere!…Voglio addomesticare i Venti e tenerli a guinzaglio… Voglio una muta di venti, fluidi levrieri, per dar la caccia ai cirri flosci e barbuti.
La respirazione dei miei fratelli dormenti fingeva il sonno di un mare possente, su una spiaggia. Ma l’entusiasmo inesauribile dell’aurora traboccava già dalle montagne, tanto copiosamente la notte aveva dovunque versato profumi e linfe eroiche. Paolo Buzzi, bruscamente sollevato da quella marea di delirio, si contorse, come nell’angoscia di un incubo.
– Li udite i singhiozzi della Terra?…La Terra agonizza nell’orrore della luce!…Troppi soli si chinarono al suo livido capezzale! Bisogna lasciarla dormire!…Ancora! Sempre!…Datemi delle nuvole, dei mucchi di nuvole, per coprire i suoi occhi e la sua bocca che piange!
A queste parole il Sole ci porse dall’estremità dell’orizzonte, il suo tremulo e rosso volante di fuoco.
– Alzati, Paolo! – gridai allora. – Afferra quella ruota!…Io ti proclamo guidatore del mondo!…Ma, ahimè, noi non potremo bastare al gran lavoro del Binario futurista! Il nostro cuore è ancora pieno di un ciarpame immondo: code di pavoni, pomposi galli di banderuole, leziosi fazzoletti profumati!…E non abbiamo ancora scacciate dal nostro cervello le lugubri formiche della saggezza… Ci vogliono dei pazzi!… Andiamo a liberarli!
Ci avvicinammo alle mura imbevute di gioia solare, costeggiando una sinistra vallata, ove trenta gru metalliche sollevano stridendo, dei vagoncini pieni d’una biancheria fumigante, inutile bucato di quei Puri, lavati già da ogni sozzura di logica.
Due alienisti comparvero, categorici, sulla soglia del Palazzo. Io non avevo fra le mani che uno smagliante fanale d’automobile; e fu col suo manico di lucido ottone che inculcai loro la morte.
Dalle porte spalancate, pazzi e pazze scamiciati, seminudi, eruppero a migliaia, torrenzialmente, così da ringiovanire e ricolorare il volto rugoso della Terra.
Alcuni vollero subito brandire, come bastoni d’avorio, i campanili lucenti; altri si misero a giuocare al cerchio con delle cupole… Le donne pettinavano le loro lontane capigliature di nuvole con le acute punte di una costellazione.
– O pazzi, o fratelli nostri amatissimi, seguitemi!…Noi costruiremo il Binario sulle cime di tutte le montagne, fino al mare! Quanti siete?…Tremila?…Non basta! D’altronde la noia e la monotonia troncheranno in breve il vostro bello slancio… Corriamo a domandar consiglio alle belve dei serragli accampati alle porte della Capitale. Sono gli esseri più vivi, i più sradicati, i meno vegetali! Avanti!…A Podagra! A Podagra!…
E partimmo, scarica formidabile di una chiusa immane.
L’esercito della follia si avventò di pianura in pianura, calò per le valli, ascese rapido alle cime, con lo slancio fatale e facile d’un liquido entro enormi vasi comunicanti, e infine mitragliò di grida, di fronti e di pugni le mura di Podagra che risuonò come una campana.
Dopo avere ubbriacati, uccisi o calpestati i guardiani, la gesticolante marea inondò l’immenso corridoio melmoso del serraglio, le cui gabbie, piene di velli danzanti ondeggiavano nel vapore delle urine selvatiche e oscillavano più leggiere che gabbie di canarini fra le braccia dei pazzi.
Il regno dei leoni ringiovanì la Capitale. La ribellione delle criniere e il voluminoso sforzo delle groppe inarcate a leva scolpivano le facciate. La loro forza di torrente, scavando il selciato, trasformò le vie in altrettanti tunnel dalle vôlte scoppiate. Tutta la tisica vegetazione degli abitanti di Podagra fu infornata nelle case, le quali, piene di rami urlanti, tremavano sotto la impetuosa grandinata di sgomento che crivellava i tetti.
Con bruschi slanci e con lazzi da clowns, i pazzi inforcavano i bei leoni indifferenti, che non li sentivano, e quei bizzarri cavalieri esultavano ai tranquilli colpi di coda che ad ogni istante li gettavano a terra… Ad un tratto, le belve si arrestarono, i pazzi tacquero, davanti alle mura, che non si muovevano più…
– I vecchi son morti… I giovani sono fuggiti!… Meglio così!…Presto! Siano divelti i parafulmini e le statue!…Saccheggiamo gli scrigni colmi d’oro… Verghe e monete!…Tutti i metalli preziosi saranno fusi, pel gran Binario militare!…
Ci precipitammo fuori, coi pazzi gesticolanti e le pazze scarmigliate, coi leoni, le tigri e le pantere cavalcate a nudo da cavalieri che l’ebbrezza irrigidiva contorceva ed esilarava freneticamente.
Podagra non fu più che un immenso tino, pieno di un rosso vino dai gorghi spumosi, che colava veemente dalle porte, i cui ponti levatoi erano imbuti trepidanti e sonori…
Attraversammo le rovine dell’Europa ed entrammo nell’Asia, sparpagliando lontano le orde terrorizzate di Podagra e di Paralisi, come i seminatori gettano la semente con un gran gesto circolare.
3.
A notte piena, eravamo quasi in cielo, su l’altipiano persiano, sublime altare del mondo, i cui gradini smisurati portano popolose città. Allineati all’infinito lungo il Binario ansavamo su crogiuoli di barite, di alluminio e di manganese, che a quando a quando spaventavano le nuvole con la loro esplosione abbagliante; e ci sorvegliava, in cerchio, la maestosa ronda dei leoni che, erette le code, sparse al vento le criniere, foravano il cielo nero e profondo coi loro ruggiti tondi e bianchi.
Ma, a poco a poco, il lucente e caldo sorriso della luna traboccò dalle nuvole squarciate. E, quando ella apparve infine, tutta grondante dell’inebriante latte delle acacie, i pazzi sentirono il loro cuore staccarsi dal petto e salire verso la superficie della liquida notte.
Ad un tratto, un grido altissimo lacerò l’aria; un rumore si propagò, tutti accorsero… Era un pazzo giovanissimo, dagli occhi di vergine, rimasto fulminato sul Binario.
Il suo cadavere fu subito sollevato. Egli teneva fra le mani un fiore bianco e desioso, il cui pistillo s’agitava come una lingua di donna. Alcuni vollero toccarlo, e fu male, poiché rapidamente, con la facilità di un’aurora che si propaga sul mare, una verdura singhiozzante sorse per prodigio dalla terra increspata di onde inattese.
Dal fluttuare azzurro delle praterie, emergevano vaporose chiome d’innumerevoli nuotatrici, che schiudevano sospirando i petali delle loro bocche e dei loro occhi umidi. Allora, nell’ inebbriante diluvio dei profumi, vedemmo crescere distesamente intorno a noi una favolosa foresta, i cui fogliami arcuati sembravano spossati da una brezza troppo lenta. Vi ondeggiava una tenerezza amara… Gli usignuoli bevevano l’ombra odorosa con lunghi gorgoglii di piacere, e a quando a quando scoppiavano a ridere nei cantucci giocando a rimpiattino come fanciulli vispi e maliziosi. Un sonno soavissimo vinceva lentamente l’esercito dei pazzi, che si misero a urlare dal terrore.
Irruenti, le belve si precipitarono a soccorrerli. Per tre volte, stretti in gomitoli balzanti, e con assalti uncinati di rabbia esplosiva, le tigri caricarono gli invisibili fantasmi di cui ribolliva la profondità di quella foresta di delizie…
Finalmente, fu aperto un varco: enorme convulsione di fogliami feriti, i cui lunghi gemiti svegliarono i lontani echi loquaci appiattati nella montagna. Ma, mentre ci accanivamo, tutti, a liberar le nostre gambe e le nostre braccia dalle ultime liane affettuose, sentimmo a un tratto la Luna carnale, la Luna dalle belle cosce calde, abbandonarsi languidamente sulle nostre schiene affrante.
Si udì gridare nella solitudine aerea degli altipiani:
– Uccidiamo il chiaro di Luna!
Alcuni accorsero alle cascate vicine; gigantesche ruote furono innalzate, e le turbine trasformarono la velocità delle acque in magnetici spasimi che s’arrampicarono a dei fili, su per alti pali, fino a dei globi luminosi e ronzanti.
Fu così che trecento lune elettriche cancellarono coi loro raggi di gesso abbagliante l’antica regina verde degli amori.
E il Binario militare fu costruito. Binario stravagante che seguiva la catena delle montagne più alte e sul quale si slanciarono tosto le nostre
veementi locomotive impennacchiate di grida acute, via da una cima all’altra, gettandosi in tutti i precipizi e arrampicandosi dovunque, in cerca di abissi affamati, di svolti assurdi e d’impossibili zig-zag…Tutt’ intorno, da lontano, l’odio illimitato segnava il nostro orizzonte irto di fuggiaschi. Erano le orde di Podagra e di Paralisi, che noi rovesciammo nell’Indostan.
4.
Accanito inseguimento… Ecco scavalcato il Gange! Finalmente il soffio impetuoso dei nostri petti fugò davanti a noi le nuvole striscianti, dagli avvolgimenti ostili, e noi scorgemmo all’orizzonte i sussulti verdastri dell’Oceano Indiano, a cui il sole metteva una fantastica museruola d’oro..
Sdraiato nei golfi di Oman e del Bengala, esso preparava perfidamente l’invasione delle terre.
All’estremità del promontorio di Cormorin, orlato di una poltiglia di ossami biancastri, ecco l’Asino colossale e scarno la cui groppa di cartapecora grigiastra fu incavata dal peso delizioso della Luna… Ecco l’Asino dotto, dal membro prolisso rammendato di scritture, che raglia da tempo immemorabile il suo rancore asmatico contro le brume dell’orizzonte, dove tre grandi vascelli s’avanzavano immobili, con le loro velature simili a colonne vertebrali radiografate.
Subito, l’immensa mandra delle belve cavalcate dai pazzi protese sui flutti musi innumerevoli, sotto il turbinìo delle criniere che chiamavano l’Oceano alla riscossa. E l’Oceano rispose all’appello, inarcando un dorso enorme e squassando i promontorî prima di prender lo slancio. Esso provò lungamente la propria forza, agitando le anche e ripiegando il ventre sonoro fra le sue vaste fondamenta elastiche.
Poi, con un gran colpo di reni, l’Oceano poté sollevare la propria massa e sormontò la linea angolosa delle rive… Allora, la formidabile invasione cominciò.
Noi marciavamo nell’ampio accerchiamento delle onde scalpitanti, grandi globi di schiuma bianca che rotolavano e crollavano, docciando le schiene dei leoni… Questi, allineati in semicerchio intorno a noi, prolungavano da ogni parte le zanne, la bava sibilante e gli urli delle acque. Talvolta, dall’alto delle colline, guardavano l’Oceano gonfiare progressivamente il suo profilo mostruoso, come una immensa balena che si spingesse innanzi su un milione di pinne. E fummo noi che lo guidammo così fino alla catena dell’ Imalaia, aprendo, come un ventaglio, il formicolio delle orde in fuga che volevamo schiacciare contro i fianchi del Gorisankar.
– Affrettiamoci, fratelli miei!…Volete dunque che le belve ci sorpassino? Noi dobbiamo rimanere in prima fila malgrado i nostri lenti passi che pompano i succhi della terra… Al diavolo queste mani vischiose e questi piedi che trascinano radici!…Oh! noi non siamo che poveri alberi vagabondi! Vogliamo delle ali! Facciamoci dunque degli aeroplani.
Saranno azzurri gridarono i pazzi azzurri,per sottrarci meglio agli sguardi del nemico, e per confonderci con l’azzurro del cielo, che, quando c’è vento, garrisce sulle vette come un’immensa bandiera.
E i pazzi rapirono mantelli turchini alla gloria dei Budda, nelle antiche pagode, per costruire le loro macchine volanti.
Noi ritagliammo i nostri aeroplani futuristi nella tela color d’ocra dei velieri. Alcuni avevano ali equilibranti e portando i loro motori, s’inalzavano come avvoltoi insanguinati che sollevassero in cielo vitelli convulsi.
Ecco: il mio biplano multicellulare a coda direttiva: 100 HP, 8 cilindri, 80 chilogrammi… Ho fra i piedi una minuscola mitragliatrice, che posso scaricare premendo un bottone d’acciaio…
E si parte, nell’ebbrezza di un’agile evoluzione, con un volo vivace, crepitante, leggiero e cadenzato come un canto d’invito a bere e a ballare.
Urrà! Siam degni finalmente di comandare il grande esercito dei pazzi e delle belve scatenate!…
Urrà! Noi dominiamo la nostra retroguardia: l’Oceano col suo avviluppamento di schiumanti cavallerie! Avanti, pazzi, pazze, leoni, tigri, e pantere! Avanti, squadroni di flutti!…I nostri aeroplani saranno per voi, a volta a volta,bandiere di guerra e amanti appassionate! Deliziose amanti che nuotano, aperte le braccia, sull’ondeggiar dei fogliami, o che indugiano mollemente sull’altalena della brezza!. Ma guardate lassù, a destra, quelle spole azzurre… Sono i pazzi, che cullano i loro monoplani sull’amaca del vento del sud!…Io intanto, sto seduto come un tessitore davanti al telaio e vo tessendo l’azzurro serico del cielo!
Oh quante fresche vallate, quanti monti burberi, sotto di noi!…Quanti greggi di pecore rosee, sparsi sui declivi delle verdi colline che si offrono al tramonto!…Tu le amavi,anima mia!…No! No! Basta! Tu non godrai più, mai più, di simili insipidezze!…Le canne colle quali un tempo facevamo delle zampogne formano l’armatura di questo aeroplano!…Nostalgia! Ebbrezza trionfale! Presto avremo raggiunti gli abitanti di Podagra e di Paralisi, poiché voliamo rapidi ad onta delle raffiche avverse… Che dice l’anemometro?…Il vento che ci è contrario ha una velocità di cento chilometri all’ora!…Che importa? Io salgo a duemila metri, per sorpassare l’altipiano… Ecco! Ecco le orde!…Là, là, davanti a noi, e già sotto ai nostri piedi!…Guardate, laggiù, a picco, fra gli ammassi di verdura, la tumultuante follia di quel torrente umano che s’accanisce a fuggire!
Questo fracasso?…E lo schianto degli alberi! Ah! Ah! Le orde nemiche sono ormai cacciate contro l’alta muraglia del Gorisankar!… E noi diamo loro battaglia!…Udite? Udite i nostri motori come applaudono?… Olà, grande Oceano Indiano, alla riscossa!
L’Oceano ci seguiva solennemente,atterrando le mura delle città venerate e gettando di sella le torri illustri, vecchi cavalieri dall’armatura sonora, crollati giù dagli arcioni marmorei dei templi.
Finalmente! Finalmente! Eccoti dunque davanti a noi gran popolo formicolante di Podagrosi e di Paralitici, lebbra schifosa che divora i bei fianchi della montagna… Noi voliamo rapidi contro di voi, fiancheggiati dal galoppo dei leoni, nostri fratelli, e abbiamo alle spalle l’amicizia minacciosa dell’Oceano, che ci segue da vicino per impedire che s’indietreggi!…E’ soltanto una precauzione, poiché non vi temiamo!…Ma voi siete innumerevoli!…E potremmo esaurire le nostre munizioni, invecchiando durante la carneficina!
Io regolerò il tiro!…L’alzo a ottocento metri! Attenti!…Fuoco!…Oh! l’ebbrezza di giocare alle biglie della Morte!…E voi non potrete carpircele!
Indietreggiate ancora? Questo altipiano sarà presto superato!…Il mio aeroplano corre sulle sue ruote, scivola sui pattini e s’alza a volo di nuovo!…Io vado contro il vento!…Bravissimi, i pazzi!
Continuate il massacro! Guardate! Io tolgo l’accensione e calo giù tranquillamente, a volo librato, con magnifica stabilità, per toccar terra dove più ferve la mischia!
“Ecco la furibonda copula della battaglia, vulva gigantesca irritata dalla foia del coraggio, vulva informe che si squarcia per offrirsi meglio al terrifico spasimo della vittoria imminente! E’ nostra, la vittoria…ne sono sicuro, poiché i pazzi lanciano già al cielo i loro cuori, come bombe!…L’alzo a cento metri! Attenti!
Fuoco!…Il nostro sangue?…Sì! Tutto il nostro sangue, a fiotti, per ricolorare le aurore ammalate della Terra!…Sì, noi sapremo riscaldarti fra le nostre braccia fumanti, o misero Sole, decrepito e freddoloso, che tremi sulla cima del Gorisankar!…
A proposito di Milano
novembre 9, 2008
Ci sono andato perchè ho voglia di mettermi là e di non muovermi più. Sai che è la città più bella del mondo? Anzitutto è città; quando ci si sta dentro si pensa veramente che il mondo è coperto di case; e poi può capitare che si trovi della campagna in mezzo ad un quartiere, che si trovi un prato con una chiesetta proprio da campo al margine; copre il mondo ed è piena del mondo, di tutte le possibilità naturali del mondo (tranne montagne che detesto) allo stesso tempo.
Lettera di Elio Vittorini, 10 novembre 1933
E la mattina mi sveglio alle sette ed esco su una terrazza che è dinanzi alla mia camera a vedere i primi fumi dei primi comignoli nell’aria ancora celeste. é il quartiere più bello di Milano quello dove ora sto io […] -turrito di fabbriche.
Lettera di Elio Vittorini, 10 febbraio 1934
Anonimo
ottobre 3, 2008
Trippers and askers surround me,
People I meet, the effect of my early life or the ward and city I live in, or the [nation,
The latest dates, discoveries, inventions, societies, authors old and new,
My dinner, dress, associates, looks, compliments, dues,
The real or fancied indifference of some man or woman I love,
The sickness of one of my folks or of myself, or ill-doing or loss or lack of money,
[or depressions or exaltations,
Battles, the horrors and fratricidial war, the fever, the doubtful news, the fiftul
[events;
These come to me days and nights and go from me again,
But they are not the Me myself.
Walt Whitman, 1855
sull'importanza della filosofia.
settembre 29, 2008
Durante un ritiro un monaco provò turbamento perchè il suo Maestro non aveva dato risposta a quelle che riteneva questioni filosofiche importanti. Le questioni erano: se il mondo era eterno o non eterno; se il mondo era finito o infinito; se si rinasce dopo la morte o si muore per sempre.
La risposta del maestro fu semplice: non sono problemi a cui ho intenzione di rispondere, o meglio, non sono interessato a rispondere.Non puoi aver deciso di diventare monaco pensando che il tuo maestro potesse risolvere i tuoi dubbi circa l’esistenza.Non è per questo che sei qui.
Come se vi fosse un uomo colpito da una freccia intrisa di abbondante veleno, e gli amici e i compagni, la famiglia e i parenti chiamassero un medico per esaminare la freccia, e l’uomo ferito dicesse: “Non voglio estrarre questa freccia finchè non saprò se chi l’ha scagliata è un brahmano, uno ksatriya, un vaisya; finchè non saprò il suo nome e quello della sua famiglia […] se è alto, basso o di media altezza”. Quell’uomo non potrebbe scoprire tutte quelle cose, perche morirebbe prima.
Anonimo
settembre 29, 2008
Trovo salutare restare solo per la maggior parte del tempo. essere in compagnia, anche delle migliori, provoca subito noia e dispersioni. Amo restare solo. Non trovai mai un compagno che fosse tanto buon compagno della solitudine. Per la maggior parte noi siamo più soli quando usciamo tra gli uomini di quando siamo in camera nostra. Un uomo che pensi o lavori è sempre solo – lasciatelo stare dove vuole. La solitudine non è misurabile dalle miglia di distanza che si frappongono tra un uomo e il suo prossimo. Lo studente realmente studioso è un solitario, in uno degli affollati alverai di Harvard, come un derviscio nel deserto.
Henry D. Thoreau; Walden ovvero la vita nei boschi, 1845-47
Per chi fosse interessato a questo autore, non ancora molto conosciuto dalle nostre parti, segnalo un interessante saggio-presentazione di Wu Ming II a questo link:
http://www.wumingfoundation.com/italiano/outtakes/wm2_walden.htm
Anonimo
settembre 28, 2008
Le nostre invenzioni [tecniche] tendono ad essere graziosi giocattoli che distraggono l’attenzione dalle cose serie. Sono mezzi progrediti diretti a un fine non ancora progredito – fine troppo facile da conseguirsi; come le ferrovie che portano da Boston a New York. Abbiamo tanta fretta di costruire un telegrafo magnetico dal Maine al Texas; ma può essere che il Maine e il Texas non abbiano nulla di importante da comunicarsi […]
Come se la cosa più importante fosse parlarsi in fretta – e non parlare assennatamente. Desideriamo ardentemente costruire un tunnel sotto l’Atlantico per avvicinare così il Vecchio mondo al Nuovo di qualche settimana – ma forse la prima notizia che arriverà alle grandi e pendule orecchie americane, sarà che la principessa Adelaide ha la tosse asinina.
Henry D. Thoreau; Walden ovvero la vita nei boschi, 1845-47
Anonimo
settembre 14, 2008
“Il cerchio è un legame cosmico, ma io lo adoro come forma – è la forma più modesta, ma si afferma con prepotenza, è precisa ma variabile, è stabile e instabile allo stesso tempo, è una tensione che porta con sé infinite tensioni.”
Vassilij Kandinskij, 1926. Punto e linea sul piano.
[Nessun problema nei confronti dell’autore in questione come teorico, un sacco di problemi nei confronti delle sue tele. Ma si sa, quando la critica dice SI, OH YEAH, poi diventi artista e ti chiamano pure ad insegnare al bauhaus, oppure a riorganizzare il sistema artistico sovietico, ti chiamano Commissario del popolo]
o meglio, per usare le parole di De Chirico, uno che il pennello lo sapeva tenere in mano:
“Prima di essere cézanniani, picassiani, soutisiani o matissiani e prima di avere l’emozione, l’angoscia, la sincerità, la spontaneità, la spiritualità, i nostri geni modernisti farebbero meglio a fare una buona e bella punta alla loro lapis.”
Anonimo
settembre 1, 2008
Sfodera le tue definizioni taglienti come pugnali. La cavallinità è la quiddità di tutti i cavalli. Flussi di tendenza ed eoni essi adorano. Dio: rumore per la strada: molto peripatetico. Spazio: tutto quell’accidente che non puoi fare a meno di vedere. Attraverso spazi più piccoli dei globuli rossi del sangue umano striscianostrusciano dietro le chiappe di Blake nell’eternità di cui questo mondo vegetale non è altro che ombra. Tienti all’ora, al qui attraverso i quali tutto il futuro sprofonda nel passato.
James Joyce, Ulisse
requiem latino
agosto 26, 2008
la lingua latina, come la si scriveva nell’epoca che i professori si ostinano a chiamare il secolo classico non l’attirava granché. Quella lingua angusta, dalle strutture limitate, quasi invariabili, dalla sintassi senza flessibilità, senza colori, senza sfumature; quella lingua livellata in modo uniforme, mondata dalle espressioni aspre ma talvolta ricche di immagini delle età precedenti, poteva, a rigore, enunciare le maestose tiritere, i vari luoghi comuni rimasticati da retori e poeti, ma emanava un tale disinteresse, una tale noia che, negli studi di linguistica, per trovarne un’altra così volontariamente debilitata, così solennemente sfibrata e grigia, bisognava arrivare allo stile francese del secolo di Luigi XIV
A Rebours, Huysmans
Anonimo
agosto 18, 2008
[…] Passò lo spartiacque di confine. Non c’erano guardie di finanza, doganieri, bandiere. Nessuno. Le sbarre erano alzate, per terra sparsi moduli e carte, qualche arma abbandonata, scatolette di latta vuote, escrementi. Su un giornale tra la polvere della strada lesseun titolo: Mussolini gestorben, ma a differenza del 25 luglio 1943 non provò nessuna emozione. […]
Mario Rigoni Stern
Franza Kafka
agosto 16, 2008
Quando di notte si passeggia per una via, e ci corre incontro un uomo – già visibile da lontanto perché la strada è in salita e c’è la luna piena – non lo afferreremo, anche s’è debole e cencioso, anche se qualcuno corre dietro a lui e grida, ma lo lasceremo proseguire.
Perché è notte, e non dipende da noi che la strada salga, dinanzi a noi, nella luna piena, e inoltre, forse quei due hanno organizzato un inseguimento per divertirsi, o forse tutt’e due inseguono un terzo, forse il primo viene inseguito senza ragione, forse il secondo vuole uccidere e noi diverremmo complici in un omicidio, forse i due s’ignorano completamente, e ciascuno di loro, sotto la propria responsabilità se ne corre a letto, forse sono dei sonnambuli, e forse il primo ha delle armi.
E infine, non saremo stanchi, dal momento che abbiamo bevuto tanto vino? Possiamo essere contenti di non vedere più nemmeno il secondo.
Franz Kafka, I passanti (1907)
Lore
agosto 5, 2008
è sempre un piacere leggerti il cinque di agosto