Effe è seduto davanti ad uno schermo di un computer. Effe fissa un punto luminoso che lampeggia sul display e lo vede scintillare. Effe ha lo sguardo fisso e gli occhi sbarrati, non osserva nulla, semplicemente vede. To look – to see. Effe tiene in mano una sigaretta, ma non inspira né espira. Vede il fumo propagarsi per la stanza, e osserva -questo sì lo osserva- le figure che danzano tra spirali di foschia. La mano è ferma e la cenere ogni tanto cade sulla tastiera. Quando Effe si accorge dello scontro tra tasti e polvere grigia, muove un poco la palpebra destra, poi chiude gli occhi. Il computer dice che Effe ha un sacco di amici, ma Effe è da molto tempo che rimane chiuso in casa da solo.
Tecnicamente Effe è connesso col mondo intero. Ma Effe pensa di non conoscere nessuno di quel mondo, non è neppure sicuro che esista quel mondo intero di cui vede scorrere immagini e suoni. Il computer dice che esistono stati e nazioni, che si chiamano Italia, Germania, Andorra. Dice persino che esiste una palla brunacquosa chiamata Terra. Il computer fa anche volare sopra questo globo e fa vedere, paese per paese, l’intera superficie terrestre. Effe non ha mai pensato che i campi siano tanti quadratini di colori diversi, li ha sempre considerati piuttosto un’unica distesa informe su cui aleggia la nebbia. Il computer dice persino che esistono animali venuti male come l’ornitorinco. Effe non crede all’esistenza dell’ornitorinco.
Effe ogni tanto si alza dalla sedia e s’avvicina alla finestra. La tapparella è abbassata completamente e i vetri sono socchiusi. Uno spiffero d’aria fredda colpisce i muscoli già raggrinziti dalla lunga inattività. Effe pensa che le finestre di tutto l’appartamento sono vecchie e non si chiudono bene. Pensa per un attimo di aprire le ante, ma subito cambia idea. Non ha bisogno di sapere se il palazzo di fronte a sé sta ancora in piedi. Il palazzo di fronte sta sempre in piedi. Effe si sente le mani gelide e le avvicina alle guance. Un brivido si propaga per il corpo quando le dita accarezzano la barba che ricopre il volto. Pensa che l’unica cosa di cui è sicuro è che quel corpo è suo. Poi resta ritto in piedi.
Effe subito scappa dai pensieri, si rifugge in cucina. Il neon bianco sul soffitto cancella le ombre e fa scappare due scarafaggi sotto la credenza. Le mani di Effe sono ancora fredde, gelide. Quelle mani non sanno più cosa fare, come comportarsi, quindi aprono il frigorifero. Anche il frigorifero è freddo, e per di più, è vuoto. Effe pensa che la cosa non gli dispiace poi troppo. Comunque non ha fame e, anche se ce l’avesse, non avrebbe voglia di mangiare in quel momento. Effe vede subito la caffettiera, invece. È una Bialetti, le migliori. Il manico però si è rotto e il pomello si svita ogni due caffè.
La Bialetti di Effe è mezza monca. Nonostante questo svolge bene il suo compito, quello di preparare caffè. Effe si concentra su questi pensieri ogni volta che la carica ad acqua ed infuso. Ad Effe il caffè piace molto, gli piace l’aroma che esce dalla moka sul fuoco, il vapore bianco che sbuffa, il suono che si propaga per il silenzio delle quattro pareti. Un fischio stridulo, chiù. Ad Effe, però, il sapore del caffè non piace poi molto, o meglio questa è una cosa che non è mai riuscito a capire. Quando i sapori incontrano il gusto, si mischiano, ed Effe non sa riconoscere cosa gli piace e cosa non gli piace. Quando qualcuno gli chiede un’opinione su ciò che sta mangiando, Effe risponde sempre che è molto buono. Tranne quando la cosa che ha sul piatto è esteticamente inaccettabile. In quei casi risponde che non è un cibo che adora, ma che comunque è molto buono.
Fortunatamente Effe ha smesso di parlare con le persone, così non deve più inventarsi le cose da dire. Non è mai stato bravo ad inventarsi le cose, richiede troppa immaginazione. Spesso Effe si chiede come si fa ad inventare qualcosa che non si è mai provato. Allora ripensa alla sua prima ragazza, la rivede nei lunghi capelli scuri. Effe la ricorda così com’era la prima volta che hanno fatto l’amore. Aveva le guance rosse e un sorriso appena abbozzato, provocante. Era abbracciata a lui, fumava una sigaretta ed avevano appena finito di fare tutto quello che dovevano fare. Effe ripensa alla domanda che in quel momento si è sentito pronunciare. Ripensa a quel “e allora ti è piaciuto?” Effe ripensa alla propria voce bloccata, al lungo silenzio. E la vede nascondersi il volto tra le lacrime. Effe non ha mai saputo cosa rispondere alle persone.
Effe cammina lentamente col caffè in mano, deambula per la stanza. Sente plichettare nel lavello gocce d’acqua di fogna. Plic. Plic. Si avvicina al rubinetto e lo stringe con forza, inutilmente. Continua a plichettare, con lentezza incessante. Effe pensa distrattamente che gli servirebbe qualche attrezzo per cercare di rimettere in sesto la casa che si ribella al padrone. Ma pensa pure che le cassette degli attrezzi le vendono al Brico o da Castorama. Un lieve sentore di nausea si propaga per il corpo di Effe non appena immagina le scaffalature infinite, i soffitti altissimi, le allegre coppiette che cercano vasi per il terrazzo, i commessi vestiti di giallo, la coda alle casse, il tintinnio delle monete. Effe assapora un poco di bile tra lingua e palato.
Si sforza, quindi, di concentrarsi sulla monocromia del muro. La parete è completamente spoglia, non più bianca, a causa del tempo e dell’umidità, di un grigiastro diffuso. Varie volte Effe, soffermandosi a guardarla, ha pensato di ricoprirla di immagini e poster. O di dipingerla di giallo, rosso, arancione. La parete è comunque ancora grigiastra e spesso Effe la usa come tirapugni. Effe sa che il muro non può ribellarsi e quindi sfodera, a volte, qualche bel gancio contro il suo pallore. Non ora, però. Effe non farebbe mai male a nessuno. Giusto alle mosche, insetti che non dovrebbero esistere. Effe non le rincorre con la paletta, aspetta che gli si posino sul braccio. Aspetta, aspetta e poi le schiaccia con forza come una molla pronta a scattare. Effe capisce così di avere diritto di vita e di morte su di una qualche creatura e percepisce l’ombra di un sorriso tra i baffi e le labbra. In quei momenti Effe si sente come un’antica divinità babilonese.
Prepotentemente una fitta al cervello gli ricorda ancora del corpo. È come uno spillo conficcato nel cranio. Effe si cinge la testa con le mani. Effe prova un dolore sempre più intenso. Effe si getta al suolo, si raggomitola in posizione fetale, il cranio sempre schiacciato dalle braccia e le mani; Effe inizia a tremare. Le membra si irrigidiscono, continuando a tremare. Effe chiude gli occhi e prova a percepire il rumore del suo corpo. Lo sente estraneo a sé e alla propria natura. Non è un corpo di uomo. Lo spillo diventa martello pneumatico. Effe non riesce più a controllare i movimenti degli arti, sembrano assumere vita propria. I pugni si chiudono e iniziano a sbattere sul pavimento. Effe ascolta la sua voce emettere un urlo. Effe non sente la propria voce da molti giorni, rinchiuso tra se stesso e le pareti. Un urlo che non è umano. Non proviene da nessuna lingua, ma le racchiude tutte. Quelle vive e quelle morte. È l’urlo di Babele.
Effe ora è calmo. Effe è disteso al suolo e ridesta dal torpore gli arti, riconducendoli a lui. Percepisce l’acqua calda scorrere nel calorifero. Fa un rumore tenue, ma irregolare. Effe sente il silenzio rimbombare di voce propria. Poi sente una lontana scala di note. Ascolta un suono di tasti che proviene dal mondo al di là delle imposte. Effe non conosce alcun rudimento musicale, ma ascolta comunque la melodia prodotta dalle dita veloci. Si mette carponi, poi si alza. Effe non riconosce né la sinfonia né, forse, lo strumento che la crea. Si domanda da dove possa provenire quel suono mentre si avvicina alle tapparelle abbassate. Effe vede la propria mano destra avvicinarsi alla finestra. Effe ascolta la musica farsi sempre più intensa, la sente calda e sicura. Immagina i polpastrelli di giovane donna che producono quel canto e per un attimo intravede la sua snella figura. I capelli ricci, le labbra carnose, la vede abbracciata a sé. Effe si appoggia con il corpo alle imposte e cerca di aprire le ante.
All’improvviso le dita sconosciute saltano un tasto, una nota ne risulta spezzata e la sinfonia rimane interrotta. Effe ascolta di nuovo silenzio. Effe si lascia cadere al suolo, le mani ancora aggrappate alle imposte. La testa di Effe è reclina in avanti, appoggiata alla parete. Gli occhi di Effe vedono ora solo una nebbia biancastra.
Fabiana
marzo 28, 2009
Bello. Le parole riescono a far sentire l’eco del silenzio e della solitudine di Effe.
Pmt
febbraio 2, 2009
Sono Vecchio, sono grasso e sono laido, sono stanco, stanco di stare qua, seduto su questa poltrona ora mai lisa e corrosa dal mio acido sudore di vecchio grassone,fumo, fumo così che il tempo resti una vaga e nebbiosa percezione, non accendo la luce, non ne ho voglia.
Stanco stanco, perché il posacenere era troppo distante, sono stanco perché ho acceso la tv , sono stanco di te brutto coglione che mi stai leggendo, sono stanco di gente che scrive e parla, sono stanco del vino, sono stanco e sono grasso e sto fumando.
Sono stanco. Stanco persino per alzare un braccio. Stanco di ascoltare il mio respiro. Stanco di guardare il mondo mentre scorre. Stanco di vivere da fermo. Eppure non mi muovo. Quel tuo posacenere troppo lontano resterà esattamente lì dov’è. Che la cenere mi ricopra. In fondo poi mi piace…
In fondo poi mi piace essere vecchio, essere stanco, essere laido.
Essere e poterlo dire. Anche se sono il contrario di quel che vorrei.
Ho dormito per due ore.
Mi alzo. Mi alzo e mi trascino in bagno. Ho bisogno di acqua ghiacciata.
Entro in bagno. La testa sotto il rubinetto. Ora va meglio. Lo specchio, quando mi rialzo, mi restituisce un volto che non mi assomiglia. Ehi, aspetta. Sono giovane. Sono bello. Strani scherzi fa il sonno. Mi preparo un caffè. Forte, è meglio. Giro per casa. Giro a vuoto. Ma la testa è sempre allo specchio. Ma non posso tornarci. NO, non posso. E se quella faccia fosse mia? E se quello fossi io? …chi sono stato finoraaaaaaaa???
Sono stato forse soltanto un illusione? sono forse stato tutto quello che ho sempre sognato di essere, senza esserlo stato mai? ho forse sprecato tutto questo tempo a pensare, pensando come sarei potuto apparire, pensando a quello che sarei potuto diventare.
Non è possibile, questa non è la mia vita, e questo non è il mio specchio, la persona che si riflette non è altro che un altra stupida illusione.
Se non fosse illusione? e se fossi soltanto un racconto?
un racconto che mai fu e che ora è? non posso essere nato e morto tra queste righe e mai lo vorrò.
L’illusione di quel racconto che ho scritto.
Esco. Esco dall’ultima piega che il sonno mi ha lasciato impressa sul volto…il mio volto…ma perchè, perchè non l’avevo mai visto? Esco. Sì ho deciso, mi vesto. Oh, mamma. Solo pensarci mi stanca. Non posso. Ma non posso neanche restare.
Un bicchiere di latte. Sì, sì un bicchiere di latte forse stasera ho bevuto un po’ troppo.
Un bel bicchiere di latte, caldo, con un po’ di cannella, un goccio di caffè, una spruzzatina di rum e una spolverata di cacao.
Ah, perfetto. Guadagno di nuovo la poltrona. Tutto quello che mi serve questa volta è a portata di mano. Tutto. E lì, sullo sgabello accanto a me, lì, uno specchio. Uno specchio.
Non è grandissimo. Rotondo, con manico, bordo verde. Insomma uno specchio. Mi guardo. Mi guardo di nuovo. Io che non sono illusione. No, sono fatto di carne. Io, che non sono racconto. No, ho una vita troppo ordinaria. Io, che sono brutto e laido e vecchio. Io che mi sono scoperto giovane e bello. Forse. Insomma.
Mi cerco di nuovo allo specchio. Il latte riporterà le cose alla normalità. Ne sono convinto.
Prendo lo specchio. Ho paura, lo confesso. Una paura matta. Una paura che mi stringe, che quasi mi paralizza, quella paura che sfido sempre, perchè niente mi può bloccare.
Allora prendi questo stramaledetto specchio in mano. Prendilo ho detto. E muoviti braccio. Che, ti spaventi? mica ti morde. è solo uno specchio, avanti. Forza e prendi lo specchio, fai il bravo, suvvia. Specchio specchio delle mie brame…no! no, no e poi no. Non ci credo. Io sono pazzo ormai è certo. No. No. Non sono vecchio, non sono laido, non sono grasso. No. Non sono più neanche giovane. Nè tantomeno bello. No. Io…io. Io sono…non ci credo. Non ci credo. Che dici? chi sei? chi sei tu per farmi questo? uno specchio? che specchio? che magia sei? No! Io non sono quello che vedo, io non sono, non sono…
Pipkin
gennaio 16, 2009
Questo racconto è bellissimo..complimenti 🙂
RosaTiziana
gennaio 8, 2009
Si può dire Bello? O è troppo banale?
Vabbè…ormai l’ho detto.
follelfo
gennaio 4, 2009
È questo il momento, l’istante, il secondo nel quale un suono di gong rimbomba. Dong. Dong. Onomatopea che emana l’immagine d’una vacca grassa tra i pascoli verdi delle prime prealpi. Dong. Un gong di pulsione placida, quasi una stagnazione. Concetti e parole si quietano e si siedono in cerchio. Attorno ad un fuoco cantano “Knockin’on the heavens door”, e poi morbidi nei sacchi a pelo si stendono tra l’erba, quand’ecco che una manina lasciva di qualche parola nella notte buia cerca un appiglio, piano fruscia nell’erba e s’arrampica sul dorso di un concetto sopito, qualche coccola strusciante, le carezze nei punti giusti. Dong. Dong.
cannibal kid
dicembre 30, 2008
disperata e senza speranza, questa storia di effe
niente male!
littleSunshine
dicembre 29, 2008
breve ma intensa, molto bella…
chiudo gli occhi e cerco di immaginare F, ma non lo vedo.
lo intravedo, appena.
come se le mura che lo racchiudono mi impediscano la visione di lui, ma non del suo mondo.
pero’ vivo le sue emozioni, le sue sensazioni.
sento cio’ che sente, con le orecchie, con il naso, con il cuore.
quelle mani così fredde che sembrano estranee.
quell’odore di caffè che pentra nella narici.
quel chiodo nella testa. così forte che ti uccide il respiro. che ti fotte.
quel contorcersi dentro.
ma anche quelle soavi note che ti fanno capire che sei VIVA.
pero’ non riesco a scacciare i pensieri, lo invidio.
E NON POCO.
Lorella Mazza
dicembre 29, 2008
Racconto ben scritto, con vari simbolismi e limpide immagini… piaciuto molto. Complimenti!