Di’ trentatrè.

Posted on novembre 20, 2007

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Una volta, venne e mi portò a mangiare un gelato…Sperava che riconoscente tornassi a far giostrare nei miei occhi le scenette che nutrivano la sua malata e vorace immaginazione.

Dirai: gentile, davvero premuroso; un amico che si vuole sdebitare per ritrovare l’intensa intesa di prima. Già! Se non fosse che l’inverno durava ormai da tre anni, per quanto ricordassi! A sentir lui del resto i pesci optavano per credere che durasse da trentatrè secondi cioè più o meno quanto la loro memoria.

Il mio disappunto non era provocato dalla particolare mia percezione dell’inverno, bensì dal fatto che eravamo approssimativamente vicino al polo e se poi calcoli che, a detta sua, – parola che non esagero – il polo è quasi al polo opposto, ti viene un dubbio ma poi subito svanisce e pensi: “ma quanto è taccagno uno che ti offre un gelato anche se sei quasi ma solo quasi quasi al polo?”.

Era la storia dei 33 secondi specialmente, che mi aveva rivelato, a lasciarmi di stucco, come una statua di ghiaccio. Passavano la loro vita non in uno spazio tempo ma in un acquario lungo mezzo minuto, quegli stessi pesci che vivevano da millenni prima di noi sulla terra, si fa per dire. Nel gelato doveva esserci qualche tossina, perché il mio tutto organismo era in preda ad una lotta estenuante, ma il mio amico non sembrava preoccuparsene minimamente e continuava a volermi impressionare coi suoi vaneggi sui campi magnetici e i campi scalari e parlava di temperatura dell’ambiente in aumento costante e di densità -che la vita dei pesci dev’esser ben densa visto che hanno una memoria così poco voluminosa- e ancora parlava di campi, di polo e di campi di polo.

Ma io non lo stavo già da subito ascoltando: pensavo al gusto del gelato.Guardai l’orario e pensai immediatamente a un acquario fino all’orlo di birra dorata straripante. È strano come pensare ai pesci ti faccia venir sete. Non ricordo altro prima di vedermi come rinchiuso in una bottiglia, come del resto dovevano sentirsi i pesci con quelle forme bislunghe e affusolate che sembra che arrivino tutti dai tubi.

Ero fatto…stavo evaporando dalla febbre, e con l’acqua sublimavano i neuroni.. mi ritrovai con il cervello bell’e che confezionato in una bara trasparente in un incubo a forma di bottiglia che mi circondava. Non essendo quella che un terzo di litro ed essendo io parecchi chili non ci stavo proprio comodo e grattarsi e persino scagazzare era preferibilmente evitabile, c’era giusto lo spazio per una scoreggia ma poi non respiravo per trentatrè secondi.(chissà cosa gli succede ai pesci se non respirano per trentatrè secondi?).

Pensai a quello di cui avevo bisogno e realizzai che mi sarebbe bastato solo un numero infinito di altri decimali oltre ai 33 centilitri. Non che in quel delirio avesse senso lamentarsi, ma se solo avessero davvero fatto le bottiglie da un terzo di litro, io in quella virgola di infinito mi ci sarei ricavato senza intoppi un angolino per starci comodo e uno per starci comodo e cagare.

Annullato da quel pensiero sproporzionato, pensai ai periodici che avrei potuto usare per pulirmi il culo in mancanza d’altro, essendo io solo, in tutto quello spazio da sempre tendente all’infinito. Nel bel mezzo di un’allucinazione m’immaginai un vero e proprio paradiso, non era un birrario qualsiasi, era almeno il doppio, e il doppio di infinito per vederlo ci vuole uno svarione caleidoscopico, e per immaginarlo un mare di birre.

Ecco che mi trovavo costretto alla vita da qualcuno, in una bottiglia da qualcun’altro e mi sorprendevo a maledire dio che aveva fatto le birre da trentatrè approssimativamente, ma in modo che ci potessi entrare.
L’effetto del cioccolato stava svanendo quando come un fulmine sul bagnato mi scosse la mente il pensiero paradossale che mangiare i pesci fa bene alla memoria quanto mangiare cioccolato non fa bene ai cani.

-schermaschera-

Posted in: racconti