Im-piegato. Ovvero i pensieri di un uomo alle sette e trequarti del mattino davanti a un tornello.

Posted on gennaio 16, 2010

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Non ti stupire se la musica classica somiglia sempre più alle pubblicità e noi la ascoltiamo con orecchie che sono clacson  e rimedi per pelli rugose. Ti ho disegnata ad un tratto, col carboncino vivo nella mano, mi si sono incendiate le dita a duecento all’ora. Non chiedermi cosa ci faccio qui davanti, immobile come un pavone che appanna specchi e s’infarina le piume con luci da chiesa, candele spente. Ho visto il telegiornale, e l’unica cosa che sono riuscito a capire è che non capisco. Mi trascino scoiattolo elettrico e chiedo la parola alla piazza disegnata dagli zoom fotomeccanici: l’argomento non è previsto nel layout. Leghiamoci con un anello fatto di lische di pesce e intriso di nafta, sentiremo l’odore d’amore e d’anarchia messi assieme: impossibile caffé e limone. Faccio due passi a piedi scalzi fra i semafori, mi tolgo il cappello e mostro sfacciato la mia libertà sgarbata, i farisei biascicano segni della croce, io ridacchio alzando in aria il bicchiere. Quando arriva la buon costume mi imbratto sempre di fragole e scappo via inseguito dai buffoni con gli elmetti. Quel famoso Natale le palline le hai trovate negli scatoloni di naftalina, la crema a fine pasto sapeva di rancido e il trucco ti nascondeva il sorriso. Da bambina tremavi a dir  poesie che non erano tue, pensavi di rubare gli spicci altrui, così tartagliavi e deludevi le aspettative della classe familiare.

Sono sempre stato in bilico fra domande che vogliono solo una risposta a punti e gli stomaci dei palazzi costruiti a caso, è così che ho finito per intossicarmi di antiemetici e vertigine. La fabbrica in cui lavoro caccia vite; sto appeso, pipistrello a testa in giù. Sissignore, signorsì, più in basso di così non riesco a volare. Non c’è niente da fare per le ascelle del capo, sorrido tosto quando si para davanti la mia targa, almeno sembro cortese senza mostrare il fiato che mi si spezza. Il tornello che ha in ostaggio il mio inguine non so più decidere se sia quello della metropolitana, quello dell’ufficio, quello di una roulette sfortunata. Tessera magnetica o dadi? Perdonami una tale domanda a quest’ora del mattino, non c’è tempo lo so, e per la fretta ti bruci i capelli accendendoti una sigaretta.  Ho l’amaro nascosto in fondo alla credenza, ogni tanto me ne faccio due dita, giusto per controllare a che livello riposi. Chiudiamoci in una serra e stiamo a sudare finché una gittata d’etere irlandese non ci afferra i nervi.

Ieri sono stato all’ultimo cinema porno, non ho visto il film, ho osservato le scuse di chi ci entra per arrotondare e di chi vi scivola per anzianità. Il biglietto in realtà paga un cesso in affitto per pochi minuti, vi si consumano spinte d’emarginazione e lacrime mai più nate. It’s wonderful, it’s wonderful, good luck my baby, it’s wonderful…I dream of you. Vieni, scrolliamoci di dosso la paranoia e scaviamo dentro i nostri déjà-vu di sabbia bagnata: attenzione ai pezzi velenosi in obsolescenza. Le nuvole sono sacchi in via d’estinzione, che quando bucheremo tutto e il cielo sarà d’un bianco brillante, allora non ci rimarrà che scendere in cripta: conservazione meno tre gradi.  Speranza e sambuca liscio, please. Sono le otto e tre quarti passate, il capo sarà una bestia, ma condito così come sono di silicone da qui non posso muovermi. Qualcuno mi smacchia con un po’ di trielina? Dottor Tesla, quale onore! Come dice? Non può parlare? Il tempo non le ha tolto il bavaglio.

Quando entro nei supermercati  è un’erezione triste davvero. I centri commerciali mi fanno venire voglia di rimettermi ad un analista, e quello mi firmerà  un bibitone farmagalattico, cosicché dalla catena non si esce mai. E alla fine mi sento un pesce incastrato in una plastic bag, che si distruggerà con la nascita di mio nipote, forse. Ho preso a spolverare la televisione con lo spazzolone del water, sudo valium per stordire il mio senso di coscienza animale, ma non so per quanto ancora riuscirò a frenarlo. Ci vuole il fegato di una mucca per stare dopo pranzo a digerire pancia all’aria i giudizi dei talk-show, gli isterismi di gruppo e il volgar sesso. E le sette sataniche, il vicino impazzito, la depressione post-partum, il vestito di capodanno, il papa star della domenica sono il più brutto album di figurine mai proposto. E  i dibattiti le manifestazioni i cineforum sembrano un consesso di piccioni ridotti a salvare le briciole; le ideologie sono capanne di stillicidi, ombrelli di cattiva manifattura che in mancanza d’altro te li tieni lo stesso.

Ho studiato giurisprudenza e mi sono fermato in tempo, che le leggi per la tutela dei diritti di ognuno sono una formalità, un esercizio grammaticale, e allora preferisco far l’esteta o al limite l’estetista. Non te la prendere amore se sono cambiato, l’importante è che non c’entri tu. Fai pure con altri, i tuoi sporadici orgasmi frustrati frustrano anche me, sei diversa, donna, non disuguale, perciò non è detto che tu debba procreare per forza o fare all’amore con uno solo, e male! Stiamo assieme, tu a poppa io a prua, difendiamoci dal mare grosso e lecchiamo il miele dallo stesso cucchiaio se ci va.

Voglio disimparare a fare il nodo alla cravatta, mi piacerebbe mettere il papillon e portare mia madre a ballare. Credo di essere un buon padre, ma quando ho sorpreso Andrea, che divertita rigava i miei dischi di Guccini con i chiodi di Ikea, gliele ho suonate sode e lei allora non la finiva più di strillare. Goffo e umiliato ho asciugato il lago blu che le inondava il viso, poco dopo è caduta addormentata con me sul divano, con i Cure. Amore, eravamo in macchina a litigare nel traffico quando dal nulla mi hai detto del tuo stato interessante, mi è venuto da vomitare, poi sono andato al derby. Scusa. Tu in quel periodo ascoltavi Battisti e io ti prendevo in giro, io mettevo i Morphine e tu abbassavi. E che dolore quando ti ho trovata che coprivi di lacrime tuo padre, addormentato e contento, gli stringevi forte la  mano assente, rannicchiata accanto a lui sulla tua saliva disperata che cospargeva il cuscino.

Non voglio più chinarmi sulla scrivania. Rivoglio la mia schiena, protesto la liquidità, tutta, del mio tempo sprecato. Quale insolvibile debito grava nelle mie tasche vuote e per mia colpa. Un contadino che getta zucchero sull’uva per procurar buon grado, sa, quando viene scoperto, che la magagna è dipesa dalla sua mano. Quindi  tace, e tornando alle sue vigne, sulla via della bestemmia, cruccia e scoraggia  il suo cuore, per rimettersi turgore in petto con il primo raggio del giorno a venire. Così anch’io; domani aprendo gli occhi avrò già scavalcato l’arnese che mi sta davanti, come un fulmine che non ci pensa due volte a lasciarsi andare libero. Come ti camperò minuscola Andrea? Non lo so.

Io, Andrea, maschio di anni trentacinque, oggi smetto di lavorare. Roba da poeti o cantanti, ma la decisione è presa, mi dò alle ortiche e smetterò anche di fumare, se mi andrà. Ti penso figlia, buccia fertile appena sbocciata, eppure sì mortale per i tuoi sei anni fragili, non mostrare occhi molli ai vetri di casa se non mi vedrai far ritorno.

Prendo tempo con la biro, ferro per una tracheotomia maldestra; tuttavia ne traggo sollievo. Ed eccomi bestia da circo, sono un puntino inscritto in un cerchio di robot dagli occhi morbosi e il videofonino facile. Non morirò cari miei, riponete le lingue e le P38 all’ ultimo grido, io da qui non mi diparto. Non avete mai visto un uomo pensare? Scommettete sulla vita, fuori i danari, giocate pesante, io non ho nulla da perdere, perché ho già vinto.

La folla si ritira insoddisfatta, e assieme a quella il mio status d’onnipotenza.

È una guerra fra pensieri, fra decisioni che durano un secondo e il coraggio che se ne va per la sua. Chissà se finirò qui statua o lì manichino, piegato alla rapina più grossa che si possa subire, a mani alzate, furioso e immobile.

Lasciamo alle macchine il ruolo di macchine, e all’uomo il piacere d’esser uomo. Questo so.

Birra?

Mha sì.

Buio. Sipario. Applausi.

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