La cavalleria

Posted on febbraio 10, 2010

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La prima volta che aveva ricevuto una sua telefonata, Linda si era sentita domandare cosa ne pensasse del fatto che solo gli uomini potessero usare il komboloi. Era una voce femminile, un po’ roca, sibilava le esse. Non la conosceva. Linda aveva bofonchiato in risposta che in fondo era solo un’usanza, non c’erano restrizioni vere e proprie in merito all’acquisto di un rosario ortodosso. La voce allora era parsa un po’ seccata, la trovava un’usanza misogina, e ricordava di quando, una volta, ne aveva comprato uno in un baracchino di souvenir nel quartiere delle ambasciate e aveva visto chiaramente il venditore e sua moglie scambiarsi occhiate d’intesa sogghignando, mentre lei cercava nelle tasche i cinque euro e cinquanta con cui pagare. E poche ore più tardi un barista di Exarchia le aveva spiegato che non sarebbe mai uscito con una donna impegnata a rigirare tra le dita il suo komboloi, che era un gesto di una volgarità esasperata e sgradevole.
“Ma tu chi sei?”, le aveva chiesto Linda.
La voce aveva riattaccato la cornetta.

Linda viveva da poco più di un anno con una gatta che si chiamava Bastiglia e usciva da cinque mesi e due settimane con un ragazzo che si chiamava Gabriele.
Bastiglia, la gatta, voleva ucciderla. L’aveva trovata legata alla porta della cucina il giorno in cui aveva avuto libero accesso all’appartamento, buttati malamente accanto a lei c’erano una bustina di cibo sigillata e un biglietto che recitava Ama il prossimo tuo. Il proprietario aveva motivato la sua presenza sostenendo fosse appartenuta al precedente inquilino. Bastava che non gli rovinassero i muri, aveva aggiunto. A volte a Linda capitava di svegliarsi a tarda notte e trovare Bastiglia accovacciata sul comodino, con la testa bassa, il sedere proteso verso l’alto e le unghiette che sondavano l’aria in direzione della sua faccia. In quei casi Linda si tirava su, sorreggendosi sui palmi delle mani semi affondati nel materasso, e lei e la gatta restavano a fissarsi finché una delle due non decideva di abbandonare la stanza. Spesso toccava a Linda. Ogni tanto parlavano, le sere prima di un esame, quando un tentativo di relazione finiva male, o quando un editore le rimandava indietro i suoi racconti con troppe correzioni. Linda intanto cucinava e se era in umore di confessioni le rivelava di avere paura di diventare come Arturo Bandini, che aveva scritto un solo irrilevante racconto e amava una cameriera stupida che non riusciva a sedurre. Lei amava sempre uomini stupidi che non sapevano sedurla e il suo unico racconto, che in venticinque pagine seguiva la fuga in transiberiana di uno studente accusato di aver ucciso la propria sorella tirandole un bollitore in testa, marciva nella libreria della sua università soffocato da opuscoli neomarxisti. Bastiglia per qualche minuto sembrava ascoltarla, dilatando le pupille ed inclinando il capino sovrastato da due orecchie troppo grosse. Poi si girava a pancia in su e grattava la schiena contro il tappetino davanti al lavello, manifestando il suo disinteresse per qualsiasi cosa non fosse assolutamente attinente alla sua igiene personale. Allora Linda si ricordava di odiarla, e usciva dalla cucina chiudendo la porta a chiave.

La seconda volta che aveva ricevuto una sua telefonata era domenica pomeriggio e Linda sedeva sul pavimento dell’ingresso, con la spalla destra e la testa appoggiate al muro. Aveva percorso due volte i cinque passi che separavano il suo letto dal lavandino colmo di tutti i piatti di una settimana, poi si era accasciata per terra contraendo il viso come se volesse piangere. Aveva valutato se fosse opportuno raggiungere i suoi amici in un bar a due quartieri di distanza dove stavano trasmettendo la partita, e poi non si era più mossa. Bastiglia la osservava dal termosifone, gli occhi come fessure.
“Mi sono sempre chiesta come reagirebbe Leonardo Da Vinci se dovesse risorgere nel nostro secolo”, le aveva detto la voce. Linda aveva commentato che avrebbe cercato un palazzo molto alto da cui gettarsi per morire di nuovo.
“Alla fine era lui che aveva teorizzato tutta quella roba sulla caduta dei gravi, no?”
Secondo la voce la sua era una risposta banale e infantile. Leonardo sarebbe stato euforico, le calze antiscivolo lo avrebbero fatto sudare dall’emozione, le palline rimbalzine strapparsi i capelli per la gioia. Sarebbe corso dal più grande fisico del pianeta a farsi spiegare il funzionamento dello sbuccia arancia elettrico e poi sarebbe diventato professore emerito in un’università dell’Ivy League.
Linda, anche questa volta, era rimasta zitta finché la voce non aveva smesso di parlare.
“Dovrei andare a lavare i piatti, puoi dirmi chi sei?” le aveva chiesto poi, senza ottenere risposta.

Linda aveva incontrato Gabriele dopo un pessimo appuntamento. Era uscita con un ragazzo conosciuto la sera prima in un locale con le pareti nere e rosa e una dj bionda piuttosto quarantenne che faceva passare pezzi brit-pop riesumati dal dimenticatoio dei mod. Mentre era impegnata ad assecondare quello che poteva essere un tentativo di baciarla come di reggersi in piedi afferrando il suo collo, Linda aveva pensato che sembrava simpatico e che avrebbe potuto dargli una possibilità da sobrio. Si erano dati appuntamento in un irish pub che frequentava lei, Linda era arrivata in anticipo e lo aveva aspettato dentro, lui era rimasto ad aspettare fuori e poi si erano trovati sui tre gradini dell’ingresso, esattamente sotto alla serranda. Il ragazzo, di cui Linda non aveva mai ricordato il nome, studiava economia, sparava dalla finestra ai piccioni sul tetto di fronte con un fucile a salve, e aveva un passato da chierichetto e un fratello maggiore che aveva preso l’epatite durante un interrail al liceo. Alla notizia della malattia, che era stata un inciso di pochi secondi seguito da un sorso di birra, Linda aveva cominciato a scavare con l’unghia dell’indice dei solchi lunghi un paio di centimetri nel legno del tavolo. Era terrorizzata dall’epatite da quando, in terza media, aveva ricevuto via e-mail una catena di sant’Antonio a proposito di un’adolescente sedotta e abbandonata da uno sconosciuto che l’aveva lasciata con una rosa nera e un biglietto che la avvertiva del contagio.
“Credo che io e te non dovremmo più vederci”, lo aveva informato.

“Ma siamo qui da mezz’ora”, il ragazzo senza nome era rimasto a guardarla sconfortato, cercando di ricordarsi ogni singola parola detta, senza capire che cosa esattamente potesse avere sbagliato. Poi si era alzato ed era uscito, con le spalle leggermente incurvate e i pugni contratti nelle tasche dei pantaloni. Linda se n’era accorta, di quei pugni, e aveva sollevato le sopracciglia con disappunto, spostando lo sguardo verso lo spazio vuoto davanti a lei.
E poi era arrivato Gabriele, pallido e con i capelli rossicci, sicuramente non bello. Si era seduto sulla sedia rimasta libera e le aveva offerto una birra. Quindi aveva bevuto in silenzio la sua guardando Linda con un espressione quasi seccata. Non avevano avuto niente da dirsi, Gabriele era un interlocutore antipatico e supponente, un maschio alfa dal naso aquilino e pochi bicipiti che con ostinato e ostentato silenzio aveva sistematicamente soppresso ogni tentativo di Linda di dare un senso alla sua presenza. Nel momento in cui, dopo aver vuotato il bicchiere, si era avviato a pagare, Linda si era resa conto che non avrebbe potuto tollerare di tornare a casa da sola dopo due appuntamenti falliti nella stessa serata e di doversi giustificare con la gatta che, ne era sicura, la stava aspettando sveglia. Tre quarti d’ora dopo Bastiglia era stata esiliata in cucina.
“Uno a zero per me”, le aveva bisbigliato Linda.
Da allora le piaceva considerare Gabriele il suo ragazzo.

La terza telefonata della voce era stata più breve delle precedenti.
“Hai mai pensato che potresti essere la comparsa morta numero settantadue?”
“L’unica volta che ho recitato qualcosa avevo dieci anni; interpretavo Marte in uno spettacolo sul sistema solare. E Marte è una vedette, nel cosmo, non una comparsa”.
“No, non hai capito. Tu sei la comparsa morta numero settantadue, sei il povero personaggio senza nome che viene tagliato in due da un fascio di luce perché ha visto il cattivo aprire il cervello dell’uomo che scioglie l’acciaio per assimilare il suo potere. E nessuno se ne accorgerà mai, che tu sei stata tagliata in due, perché nel giro di un istante tutti gli sguardi saranno puntati sul supereroe che entrerà nel locale gettandosi con la sua superforza sul cattivo. Il tuo ruolo non dura neanche una scena, non ti è concessa nessuna battuta, solo uno sguardo sgomento mentre una luce bionica verde si fa strada tra le tue costole come se fossero di pongo”.
“Non è che l’altro supereroe se la passi meglio eh. Quello che viene ucciso perché scioglie l’acciaio”.
“Ma a te non cambia, sei comunque la comparsa morta numero settantadue”.
“D’accordo io sono la comparsa morta, tu chi sei?”
La voce aveva interrotto la chiamata.

Linda, principalmente, nella sua vita arrivava in ritardo. I suoi amici ai tempi del liceo avevano l’abitudine di darle appuntamento mezz’ora prima rispetto all’orario effettivo e così arrivava puntuale pur essendo convinta del contrario. Aveva sviluppato una teoria secondo la quale, siccome tutti tenevano sempre il lettore cd nello zaino, avrebbero ascoltato la musica mentre la aspettavano senza rendersi conto del tempo che passava. L’unica volta che era arrivata all’orario che riteneva giusto e si era ritrovata sola con una compilation ska-punk, Linda si era resa conto di quanto brevi potessero essere tredici brani di cui cinque erano già stati ascoltati durante il tragitto. Ma nonostante questo non aveva modificato il suo rapporto con il tempo e nessuno sembrava essersi più formalizzato. Invece con Gabriele le cose andavano diversamente, e questo la disorientava. Gabriele, dopo cinque mesi e due settimane di frequentazione, non avendo altro da fare che studiare per esami che non avrebbe mai dato, passava gran parte delle sue giornate nell’appartamento di Linda. Spesso se usciva preferiva aspettarla a casa e lei, ogni volta, al suo ritorno lo trovava nell’esatta posizione in cui lo aveva lasciato minuti o ore prima. Se si fosse concentrata sui dettagli si sarebbe accorta che qualcosa effettivamente era cambiato, un capello sul lavandino, della cenere sul bordo della finestra, la tazza di caffè, che prima era piena, abbandonata con gli avanzi che seccavano sul fondo. Ma in ogni caso, nel momento in cui Linda varcava la soglia, Gabriele era lì dove si trovava quando si erano salutati pronto a ricominciare qualsiasi cosa, discorso, amore, stessero facendo, come se niente li avesse interrotti. L’unico ostacolo alla loro routine era rappresentato dai ritardi di Linda. In quelle circostanze Gabriele aspettava il suono delle chiavi estratte dalla tasca per aprire la porta e andarsene in silenzio, o altrimenti cominciava ad urlare, i muscoli del collo tesi, fino a che la voce non gli si strozzava in gola e Linda si ritrovava a cucinare dei pancake per farsi perdonare.

Quando Linda, arrivando con dodici minuti di ritardo, aveva visto Gabriele aspettarla davanti al portone, dopo averlo lasciato accovacciato sul pavimento a disegnare un percorso di croccantini per Bastiglia, aveva intuito che fosse accaduta una catastrofe delle dimensioni dell’elefante che reggeva il mondo sulla testa, in bilico sulla schiena della tartaruga. Gabriele si dondolava alternando il peso sull’una e sull’altra gamba, con le mani in tasca e la spalle rigide, mordicchiando con gli incisivi il labbro inferiore.
“Credo di aver perso Bastiglia a poker”, aveva detto a Linda appena si era avvicinata abbastanza da poterlo sentire.
“Scusa?”
“Mi sono giocato la gatta a poker. Ieri sera. È passato il corriere a ritirarla poco fa. Scusami”.
Linda lo aveva osservato per qualche secondo, poi era salita in casa e si era messa a cercare ogni oggetto di proprietà di Gabriele. Li raccoglieva con calma, uno per volta, e mano a mano li posava con delicatezza sul pianerottolo appena oltre la soglia in un gruppo ordinato in file verticali di tre, che visto da lontano avrebbe potuto ricordare un rettangolo.

Quando aveva ricevuto la quarta telefonata Linda era appoggiata allo stipite della porta d’ingresso lasciata aperta per metà. Guardava i piedi di Gabriele che, appoggiato allo stipite della porta della cucina, guardava a sua volta i piedi di Linda.
“Ho scoperto che quello che gli occidentali intendono con harakiri in realtà si chiama seppuku. L’harakiri non è altro che una banale esecuzione, sai una decapitazione o via dicendo, mentre lo squarcio suicida delle budella è il seppuku. Madama Butterfly è tutta sbagliata”, le aveva detto la voce appena aveva alzato la cornetta.
“Sai, credo che non dovresti più telefonare qui”, le aveva risposto Linda.
E aveva riagganciato.


Racconto di Matilde

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