No depression (l’importanza di essere mosca)

Posted on dicembre 7, 2009

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Qualche sera fa sono andato al No Depression, un pub che sta in Via dei Platani. Uno di quei locali col pavimento a scacchi, le luci basse e i tavoli di legno impolverati coi nomi dei clienti incisi sopra col temperino. C’è anche un jukebox con le compilation estive della seconda metà degli anni ’90. Il No Depression sta per chiudere, dopo quasi trent’anni.

In paese i lounge bar sono molto frequentati. Per me non è un problema. Non amo i posti affollati, così adesso il No Depression, un pub vecchio stile abbandonato a se stesso, sembra quasi un posto normale, per quanto mi riguarda. Ai tempi della scuola era pieno di gente. Capite, c’era Tele+. Dovevi andarci. C’era anche il karaoke, il giovedì, ma il giorno dopo avevo la scuola e non potevo fare troppo tardi.

E poi il karaoke non mi piaceva.

Allora la signora mi ha guardato. Io e i miei amici eravamo persi nel vuoto e nel silenzio della grande sala – certo che è silenzio, anche se c’è la musica, il silenzio è quello dei clienti che non ci sono più. Le sedie capovolte sui tavoli di legno. I quadri di Charlie Chaplin, ancora più fuori moda delle compilation nel jukebox. Solo una coppia seduta dietro una lampada verde gigantesca. È stato allora che la signora mi ha guardato. Non avevo ancora deciso cosa prendere. Avrei detto una birra. La signora ha detto che non potevo non ricordarmi di lei.

Sì che mi ricordavo di lei. Ma pensavo che lei non… Insomma, mio fratello ha lavorato al No Depression fin quando non è andato via da qui. Una vita fa, perché l’adolescenza è una vita, una vita brutta, perciò una vita intera. Queste sono parole prese da un libro. Io non parlo così.

La signora ha detto che io e mio fratello abbiamo gli stessi occhi. Ha detto che però si vede che sono più piccolo di lui, di Luca, intendeva. La signora ha dei begli occhi. Faceva la cantante. Me lo ricordo, è venuta qui per una serata di karaoke e qualche settimana dopo si era messa con Emanuele, che è il gestore del locale. È da lui che mi ha portato dopo tutta questa manfrina su mio fratello, invitandomi oltre al bancone.

Il bancone di un bar, di un pub, persino quello di un lounge bar: è una soglia che non va oltrepassata. È un luogo strano. Perché è un luogo, lo è, anche il bancone, come lo è ogni confine. E queste sono parole mie.

Emanuele è rimasto uguale. Non che me lo ricordassi chissà quanto. Ha fatto i capelli bianchi. Un tipo tozzo, con la stretta di mano forte; potrebbe essere uno spacciatore o il miglior confidente che si possa trovare dietro un bancone dalle nove di sera in poi. Dovrei subito dirgli che mio fratello è un pezzo di stronzo, anche se le mazzate io e lui le abbiamo prese insieme, a casa, soprattutto dalla mamma. Ma lo saprà già. Mi chiede di Luca. Luca le mazzate lo hanno reso uno simpatico, uno giusto, nel senso che si trova bene con le persone. A me no. Non è che ci sto male, ma… Sì, Luca sta bene ed è qua, al paese.

Mi dicono di tornare a trovarli. Con Luca. Vorrebbero salutarlo. Dopo tanto tempo.

Aspetto fuori dal No Depression. Su Via dei Platani c’è sempre un bel po’ di traffico, anche di sera. Anche se nessuno di questi automobilisti passa di qua per il pub. Comunque, mi metto a osservare le auto. Conto gli automobilisti che guidano con una sola mano sullo sterzo. La maggior parte. Dopo un po’ mi annoio e decido di aspettare dentro.

Dal bancone guardo i cinesi che mangiano al tavolo. Sono una mamma e una bambina. La mamma l’ho già vista, ha un negozio di abbigliamento più avanti. Penso che ci sono rimasti solo i cinesi, a mangiare qui. La signora spunta alle mie spalle. Spegne una macchinetta per fare le foto che sta sul bancone. Dice che è roba digitale, deve spegnerla altrimenti la piccola cinese si mette a giocare coi tasti e la rompe. La mamma e la bambina si alzano e si avvicinano al bancone per pagare il conto. La bambina guarda la macchinetta. No funziona, rotta, dice la signora dietro al bancone.

L’altro giorno la mamma stava spiegando alla figlia che doveva lasciar perdere la mosca che si ostinava a ronzare intorno al suo panino. La bambina ha chiesto perché avrebbe dovuto, e perché le mosche continuino a stare in giro anche col primo freddo. Perché non fa molta differenza, se qui dentro ci stiamo noi o le mosche, le ha spiegato la mamma. Questo le ha detto. Non è tanto normale. Comunque. Dov’è tuo fratello?

Ho spiegato alla signora che avevamo appuntamento qui al pub. No, non siamo venuti insieme. La signora ha sorriso coi suoi occhi verdi. Se sorride le sorride il volto per intero e finisce che intravedi la cantante che era da giovane. Mi dice che la mancanza di Luca si è sentita, in tutti questi anni. Io lo so che non è proprio così e che Luca era solo uno dei tanti camerieri che giravano attorno al No Depression. La signora ha aggiunto che Luca era una simpatica canaglia. Proprio così. Mi ha raccontato che mio fratello si era proposto come cantante per il karaoke, prima di lavorare come cameriere. Disse che avrebbe portato 700 persone. Quella domenica non si presentò neppure e mandò un suo amico al posto suo. Io me lo ricordo. Era il mio compleanno.

La signora mi offre una birra alla spina. È simpatica e logorroica. Come tutte le persone che hanno qualche storia da raccontare. Prima o poi l’equilibrio tra simpatia e logorrea salta, è sempre così. Adesso mi sta dicendo di quando mio fratello andava in giro a dire che aveva dei polipi al fegato e che sarebbe morto dopo due mesi. Usò questa storia con una ragazza. La pregò di mettersi con lui, di rendere sopportabili i suoi ultimi due mesi di vita. Lei ci cascò. La lasciò dopo qualche mese. Un anno dopo lei venne al pub e lo trovò a servire ai tavoli vestito come un pinguino.

Però quando lavorava, tuo fratello, era così bravo.

Ricordo ancora la sera in cui mio fratello si licenziò dal No Depression. Non ne poteva più di lavorare dieci ore per trentamila lire per uno come Emanuele. Aveva rubato dei bicchieri dalla cucina. Mi portò con lui in campagna a romperli contro un muretto a secco.

A un certo punto abbiamo sentito la voce di Emanuele. Chiamava sua moglie dalla cucina. Lei è andata. È spuntata fuori coi suoi capelli di una tinta accesa e mi ha detto di raggiungerli in cucina. La barriera che non va oltrepassata.

Emanuele ha un grembiule addosso e sta aprendo un panino con un coltello lungo. Sul tavolo, accanto alla padella con l’olio vecchio di un mese, ci sono sottaceti, tonno e patatine fritte. Luca è accanto a lui. Certo, sarà entrato dal retro, è di famiglia, qui. Quando l’ho visto a pranzo aveva ancora i capelli lunghi legati sulla nuca. Deve averli tagliati oggi pomeriggio. Domani parte. Mi saluta con un leggero movimento della mano destra, su cui ha due anelli sottili, senza staccarla troppo dal corpo. Mi accorgo che il vecchio e mio fratello hanno gli occhi lucidi. Allora, non c’è niente da fare, non cambi idea, dice mio fratello.

Questa serata è una canzone che non è stata scritta per me.

Emanuele ferma il coltello nel panino a metà della sua corsa. Si volta, asciuga le mani grosse e pelose sul grembiule, tira su gli occhiali. Come faccio?, dice. Mi saluta con un cenno del capo, continua. Sono mesi che a malapena paghiamo l’affitto. Il proprietario… Almeno fosse nostro, questo posto. Il proprietario dice che ha fretta di vendere. Ha comprato una casa a Roma per la figlia. Ci mette pressione continua. Sono vecchio, Luca. Non ho nemmeno le forze per… Te lo immagini, un lounge bar, qui dentro?

Mi faccio intontire dalle luci del jukebox. Leggo i titoli delle canzoni. Everything but the girl, Vasco Rossi, La Bouche, qualcosa del primo Gigi D’Alessio. Altri tempi. Mi ricordo che pioveva spesso. Al bancone più in là stanno Luca, Emanuele e sua moglie. Ridono. Bevono della birra alla spina. Faccio andare avanti i dischi nel jukebox premendo il bottone nero. Mi invitano ad avvicinarmi. Finisco la mia birra, ascolto. Mio fratello parla di quella volta che.

Indica una porta del locale. Per metà è fatta di vetro. Ti ricordi quando c’erano le partite? Tu e i tuoi amici spiavate da là dietro. Sì, dico io, non si vedeva granché. Emanuele sorride. All’epoca ci avrebbe scannato con quelle sue mani enormi. Ricordo anche che pioveva, ma non lo dico. Cazzo, dice Luca, allungando la ‘a’ a dismisura, Questo posto è un museo di ricordi. Emanuele s’incupisce un attimo. È tutto molto sgradevole ma, non so come, necessario.

Siamo fuori. Emanuele ci offre da fumare. Io non fumo. Trovo che sia molto stupido. Mio fratello deve sostenere delle prove fisiche per un concorso e non dovrebbe neppure lui, ma accetta. Sui muri del pub ci sono le scritte degli adolescenti. Risalgono ad almeno dieci anni fa. Sembra di stare in una caverna a cielo aperto. Emanuele ci guida tra i geroglifici. Ne trova uno che appartiene a qualcuno che conosce anche Luca. Ridono. Da qui, attraverso la porta a vetri, vedo la signora dietro al bancone. Sorride e guarda fuori, verso di noi. Cosa c’è da dire, o pensare, a proposito di questi tre uomini qua fuori?

Penso che forse è giusto così, ricordo che prima, al posto del No Depression, c’era un ristorante, si chiamava Il Mappamondo, chiuse da un giorno all’altro. Ci venivamo con papà e la mamma. Quando ha chiuso ci sarà stato qualche cameriere che è venuto a salutare il gestore, dispiaciuto, forse, ridendo di qualche serata particolare, forse, anche, insomma, è così che vanno certo cose. Mi limito a stringere la grossa mano di Emanuele quando lui e Luca decidono che si è fatto tardi.

Osserviamo Emanuele rientrare nel locale chiudendosi la porta a vetro alle spalle. Sua moglie si fa di lato e sparisce dal nostro campo visivo. Io e Luca ci guardiamo. Per un attimo ho pensato di vedergli ancora quei capelli lunghi e neri sulla nuca. Mi sorride. Dice che gli dispiace per il pub. Quanti ricordi, sussurra nell’aria, guardandosi attorno. Vai a casa?, chiedo. Sì, dice, domani ha il treno per Foligno alle sette e deve alzarsi presto. Chissà se questa volta supera i test, penso. Ma prima devo andare a salutare gente, aggiunge, sollevandomi dall’imbarazzo di tornare a casa insieme.

Lo vedo allontanarsi. Tutto questo per non parlare di noi due, mi viene in mente, ma devo averlo rubato a qualche canzone. Mi guardo intorno. Via dei Platani è deserta. Torno dentro. Ma sì, torno dentro, prendo un’altra birra a stomaco vuoto e ascolto qualche vecchia storia con la testa un po’ andata. Vado al No Depression.


Racconto di Marco Montanaro

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